Nuova sentenza della Cassazione sull’acquisizione dei tabulati telefonici (c.d. data retention)
Con sentenza n. 33116/2021, la Corte di Cassazione, sezione II penale, si è posta in contrasto con i principi sanciti dalla Corte di Giustizia Europea il 2 marzo scorso (CGUE del 2 marzo 2021, C-746/18) in materia di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici (c.d. data retention). La Corte di Giustizia ha ritenuto che l’acquisizione dei dati di traffico e la conseguente ingerenza nella sfera privata dell’imputato debba essere giustificata nei soli procedimenti per reati gravi o per minacce gravi per la sicurezza pubblica.
Il tema risulta molto delicato al fine di riuscire a mantenere un equilibrio e compromesso nella tutela di diritti fondamentali contrapposti, quali il diritto alla riservatezza individuale da un lato e l’interesse pubblico all’accertamento di reati dall’altro, entrambi riconosciuti sia a livello costituzionale nel nostro ordinamento sia a livello europeo nella Carta dei diritti fondamentali.
La Suprema Corte, ha difatti ritenuto necessario l’intervento urgente del legislatore italiano in materia di acquisizione dei dati telematici, ritenendo fino ad allora applicabile la disciplina contenuta nel Codice della privacy.
L’art. 132 del Codice Della Privacy disciplina per l’ordinamento italiano, la materia della data retention secondo cui i dati relativi al traffico telefonico e telematico sono acquisiti:
- con decreto motivato del pubblico ministero;
- per finalità di accertamento e repressione dei reati, senza alcuna distinzione sulla base della gravità dei reati.
Nella summenzionata sentenza, la Cassazione, richiama la propria giurisprudenza degli ultimi anni nel riaffermare come principio consolidato il fatto che la disciplina prevista nell’art. 132 del Codice della Privacy sia perfettamente in linea con la normativa europea, in particolare con le direttive 2002/58/CE e 2006/24/CE così come interpretate dalla Corte di Giustizia europea nelle sue varie pronunce.
La normativa italiana, infatti, prevede:
- che la deroga alla riservatezza delle comunicazioni abbia una durata limitata;
- che si ponga come unico obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati;
- che sia subordinata all’emissione di un provvedimento da parte di un’autorità giurisdizionale indipendente come, appunto, il pubblico ministero.
La Cassazione conclude per l’impossibilità di ritenere che la sentenza della CGUE possa trovare diretta applicazione in Italia fino a quando non interverrà il legislatore italiano ed anche europeo in quanto allo stato può e deve ritenersi applicabile l’art. 132 D.lgs. 196/2003.
Se da un lato quindi, “è indubitabile che debba attribuirsi ai principi espressi nelle sentenze CGUE il valore fondante del diritto comunitario con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità”, dall’altro, “l’attività interpretativa del significato e dei limiti di applicazione delle norme comunitarie, operata nelle sentenze CGUE, può avere efficacia immediata e diretta nel nostro ordinamento limitatamente alle ipotesi in cui non residuino, negli istituti giuridici regolati, concreti problemi applicativi e correlati profili di discrezionalità che richiedano l’intervento del legislatore nazionale, tanto più laddove si tratti di interpretazioni di norme contenute nelle direttive”.