OEPV e riesame delle offerte: il giudice può richiedere una diversa composizione della Commissione di gara
In una procedura da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (OEPV), è facoltà del giudice richiedere che la commissione di gara espliciti le ragioni poste a supporto della valutazione di un’offerta e, nel caso lo ritenga necessario, disporre che una nuova commissione, costituita in diversa composizione, provvedesse a rivalutare l’offerta ed a supportare un eventuale giudizio con l’indicazione delle ragioni che lo avessero determinato.
Lo ha chiarito il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con la sentenza n. 823 del 18 settembre 2019 con la quale ha rigettato il ricorso presentato da un Ufficio Regionale per l’espletamento di Gare per l’appalto dei lavori (UREGA) per la riforma di una decisione dei giudici di primo grado che aveva disposto la formazione di una nuova commissione di gara, costituita in diversa composizione, affinché si provvedesse a rivalutare un progetto offerto ed a supportare un eventuale giudizio di totale insufficienza in ordine alle voci in questione, con l’indicazione delle ragioni che lo avessero determinato.
I fatti
I fatti riguardano una procedura di gara da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Alla gara partecipavano 9 concorrenti, tra cui l’appellante qualificatosi al secondo posto con un distacco minimo dalla prima. Con ricorso dinanzi al TAR, l’appellante impugnava l’aggiudicazione, lamentando l’attribuzione di un punteggio pari a 0 per una delle voci previste dall’OEPV alla quale non era stata data alcuna motivazione.
Il primo grado di giudizio
Con ordinanza, il TAR disponeva che la Commissione di gara esplicitasse “le ragioni poste a supporto della valutazione” con la quale aveva attribuito un punteggio pari a “0”. All’Ordinanza del TAR, la commissione di gara, riunitasi in eguale composizione, confermava la sua valutazione di totale insufficienza, continuando a non fornire alcun ragguaglio in ordine alle ragioni e sui criteri sui quali aveva basato il suo giudizio.
Con successiva sentenza, il TAR accoglieva il ricorso presentato contro la decisione della commissione successiva all’Ordinanza, disponendo che una nuova Commissione, costituita in diversa composizione, provvedesse:
- a rivalutare l’offerta;
- a supportare un eventuale giudizio di totale insufficienza, con l’indicazione delle ragioni che lo avessero determinato.
Il giudizio del Consiglio di Stato
Da qui l’appello della stazione appaltante contro la sentenza in questione, nella parte in cui dispone che la Commissione di gara che dovrà provvedere alla nuova ed eventualmente motivata valutazione sia “composta con soggetti diversi da quelli che hanno composto la commissione in occasione dell’espressione dei giudizi valutati illegittimi”.
L’Amministrazione regionale appellante (UREGA) ha lamentato l’ingiustizia dell’impugnata sentenza per vizio di ultra/petizione ed eccesso di potere giurisdizionale, deducendo che il Giudice di primo grado ha errato nel disporre che la commissione incaricata della rivalutazione dovrà essere costituita in diversa composizione. Ad avviso dell’Amministrazione appellante il Giudice di prime cure non avrebbe potuto disporre la diversa composizione della Commissione; e ciò in quanto la parte ricorrente non lo aveva chiesto espressamente.
I giudici di Palazzo Spada hanno chiarito che l’esigenza di utilizzare una nuova commissione di gara (in funzione valutativa) costituita in differente composizione, è sorta solamente nel corso del giudizio di primo grado (dunque successivamente alla proposizione della domanda introduttiva della causa), allorquando la commissione originariamente insediata ha mostrato la sua intenzione di non ottemperare ad una precisa disposizione del Giudice (o comunque ha mostrato di non voler fornire alcun ragguaglio in ordine alle ragioni del suo giudizio, ritenendo che le stesse fossero induttivamente ricavabili dalla votazione di totale insufficienza riassunta nel voto, pari a “zero”, attribuito).
Nel processo amministrativo, il “principio dispositivo” vale senz’altro per quanto attiene alla domanda giudiziale (nel senso che al Giudice è inibito giudicare “ultra petita”), nonché, parzialmente, anche per il meccanismo probatorio (che, com’è noto, è solamente in parte nella disponibilità delle parti, ben potendo essere disposte d’ufficio sia l’acquisizione di documenti, informazioni e/o chiarimenti, sia la consulenza tecnica e la verificazione), mentre non opera in relazione alle ‘specifiche modalità’ di assunzione e/o di acquisizione delle prove (o dei documentati chiarimenti volti ad assumere la consistenza di prove), né in relazione alle ‘modalità di attuazione’ delle ‘operazioni’ strumentali alla formazione della prova.
Tali “modalità operative” sono – di regola e per lo più – disciplinate dalla legge (come nel caso della “c.t.u.”, per la quale la legge stabilisce le regole volte ad assicurare il contraddittorio e l’imparzialità; o nel caso della “prova testimoniale”, per la quale la legge stabilisce le regole di assunzione, etc.,). Ma è evidente che la concreta organizzazione di tutte le attività processuali ed operazioni che non sono espressamente (e meticolosamente) disciplinate dalla legge processuale, non può che essere devoluta e riservata alla competenza del Giudice, concretandosi in un’attività intimamente connessa alla sua funzione, e nella quale si manifesta la sua abilità ed il suo intuito nel perseguimento della ricerca della verità (e della giustizia).
Nella fattispecie, il Giudice di primo grado aveva disposto, in fase istruttoria, che la Commissione di gara esplicitasse le ragioni poste a supporto della sua valutazione. Sicché è evidente che si è trattato, in termini tecnici, di una vera e propria richiesta istruttoria volta ad acquisire documentati chiarimenti, ai sensi dell’art.63, primo comma, del codice del processo amministrativo. Senonché, la Commissione di gara ha ritenuto di non fornire i ragguagli richiesti, limitandosi a confermare – id est: a reiterare, tale e quale – il provvedimento impugnato, intendendo così – con ogni probabilità – “chiarire” che la mera espressione del voto in termini di insufficienza assoluta (e cioè mediante l’uso dello “zero”) fosse di per sé indicativa e sufficientemente rappresentativa delle ragioni che avevano determinato la valutazione negativa.
A questo punto il Giudice di primo grado è giunto alla conclusione, rappresentata nell’appellata sentenza, che il provvedimento impugnato fosse immotivato “in parte qua”; e nell’accogliere il ricorso ha disposto, in omaggio al “principio di conservazione degli atti amministrativi” che l’Amministrazione provvedesse ad emendare il vizio di parziale difetto di motivazione – gravante sul provvedimento impugnato – mediante un’attività valutativo-esplicativa, integrativa.
Non appare revocabile in dubbio, infatti, che se avesse adottato – in alternativa a quanto ha fatto – una decisione di accoglimento in funzione puramente cassatoria del provvedimento ritenuto immotivato, corredata – come sarebbe stato corretto in un caso del genere – dalla consueta clausola volta a salvare gli ulteriori atti e provvedimenti dell’Amministrazione (doverosamente diretti alla conclusione della procedura di gara), l’effetto finale – a parte l’allungamento dei tempi – non sarebbe stato molto diverso: sarebbe stato comunque necessario procedere alla rinnovazione del segmento procedimentale viziato, e dunque alla riconvocazione della commissione.
Ed anche in quell’ipotesi sarebbe sorta la questione della corretta composizione della stessa, questione che il Giudice ha ritenuto di affrontare e di decidere – con un giudizio, per così dire, kantianamente “sintetico ed a priori” – fin da subito.
E, come appare logico (anzi ovvio), ha ritenuto che la competenza per svolgere tale attività integrativa non potesse essere devoluta ad un organo composto dalle stesse persone che – seppur già precedentemente invitate dallo stesso Organo giudiziario – avevano già deciso di non svolgerla. D’altro canto, se il Giudice di prime cure non avesse così disposto, la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado si sarebbe risolta in un atto giudiziario meramente ripetitivo dell’ordinanza già adottata e rimasta ineseguita; e dunque in una espressione di inefficienza (e di impotenza) giudiziaria. E anche l’esito provvedimentale finale – in esecuzione della stessa – sarebbe stato prevedibilmente scontato, connotandosi come un evento inevitabilmente annunziato.